Causa di Beatificazione del Servo di Dio Giovanni Palatucci



Nella fase Romana della Causa è stata nominata Postulatrice la Dott.ssa Gabriella Diamante nel febbraio del 2022.

Da questa data è stata redatta dalla Dott.ssa Gabriella Diamante in collaborazione con il Prof. Gaetano Passarelli, la Positio super martyrio del Servo di Dio che è stata consegnata nella sua prima redazione al Dicastero delle Cause dei Santi nel giugno del 2023 e della quale era Relatore Padre Vincenzo Criscuolo ofm, Relatore Generale del Dicastero.

In attesa che la prima redazione della Positio venisse esaminata e corretta si è verificata la conclusione del mandato di Padre Vincenzo Criscuolo ofm quale Relatore del Dicastero nel dicembre del 2023 e la Causa è stata assegnata al nuovo Relatore Generale Don Angelo Romano.

La Positio deve essere esaminata ed eventualmente corretta dal Relatore e riconsegnata alla Postulazione per apportare le modifiche che si ritenessero necessarie, in modo da poterla poi riconsegnare alla tipografia ed essere mandata in stampa nella versione definitiva, dunque depositata al Dicastero per ricevere il nulla osta.

Attraversato questo passaggio, l’iter della Causa prevederà l’assegnazione della seduta della Consulta degli storici che esprimeranno i loro voti; in caso di votazioni affermative, si passerà alla Consulta dei teologi, i quali allo stesso modo saranno chiamati alla votazione e successivamente in caso di votazioni positive al Congresso dei Cardinali e Vescovi Membri del Dicastero riuniti in Sessione Ordinaria. Se il parere dei Membri sarà affermativo la Causa verrà riferita al Sommo Pontefice per il suo giudizio definitivo. Il Sommo Pontefice è l’unico Giudice, vero e proprio nelle Cause dei Santi, al quale spetta emettere la sentenza definitiva sulla santità del Servo di Dio e procedere alla sua beatificazione e canonizzazione. Spetta al Prefetto del Dicastero il compito di sottoporre all’approvazione del Papa le conclusioni della Sessione Ordinaria dei Cardinali e Vescovi Membri del Dicastero. Sotto la direzione del Segretario del Dicastero, un Officiale preparerà poi il Foglio di Udienza, un breve riassunto di tutto l’iter procedurale della Causa con la richiesta al Sommo Pontefice di confermare il parere della Sessione Ordinaria e di ordinare al Dicastero di promulgare il relativo Decreto sul martirio.



Profilo biografico



Il Servo di Dio Giovanni Palatucci nacque a Montella (Avellino) il 29 maggio 1909 da Felice e Angelina Molinari. Fu battezzato l’indomani nella chiesa di S. Silvestro.

La famiglia Palatucci era molto religiosa; due zii paterni, Antonio e Alfonso, furono francescani, un terzo, Giuseppe Maria, divenne Vescovo di Campagna (Salerno) il 28 novembre 1937. L’ambiente familiare influenzò l’animo di Giovanni, inculcandogli abnegazione e amore per il prossimo.

Compì i primi studi a Montella e li proseguì al ginnasio Dionisio Pascucci a Dentecane, frazione di Pietradefusi (Avellino); si iscrisse poi al liceo classico Pietro Giannone di Benevento, ma al termine del primo anno si ritirò a causa di contrasti con i docenti, dopo aver preso le difese di alcuni compagni che riteneva vessati ingiustamente.

Conseguita la maturità da privatista al liceo Torquato Tasso di Salerno il 23 novembre 1928, si iscrisse al corso di laurea in giurisprudenza all’Università di Napoli, quindi si trasferì a quella di Torino essendo entrato volontario nella scuola allievi ufficiali di complemento a Moncalieri (Torino). Si laureò il 16 dicembre 1932 all’Università di Torino con una tesi su Il rapporto di causalità nel diritto penale. Superato l’esame di procuratore legale, anziché intraprendere la carriera forense all’inizio del 1936 presentò domanda per entrare in polizia, prendendo servizio il 3 agosto alla questura di Genova come vicecommissario aggiunto. In seguito ad una intervista che il 26 luglio 1937 apparve anonima su un giornale cittadino in cui criticava la polizia di burocratismo e di essere lontana dai problemi dei cittadini, rischiò l’espulsione, ma ci si limitò a trasferirlo alla questura di Fiume, dove giunse il 15 novembre 1937. All’emanazione delle Leggi razziali del 17 novembre 1938 il Servo di Dio, essendo a capo dell’ufficio stranieri della questura, si prodigò con gli italiani di origine ebraica e gli ebrei stranieri che volevano lasciare i territori occupati dai Tedeschi e rifugiarsi in Italia. Non potendo rilasciare documenti con i dati reali (razza, nazionalità ecc.), egli forniva visti di transito e passaporti falsi e tentò di impedire la deportazione nei centri di internamento italiani degli ebrei che si trovavano a Fiume, come residenti o in transito; quando ciò non era possibile, cercò per lo meno di farli avviare verso il campo di internamento di Campagna (Salerno), che si trovava nella diocesi dello zio Vescovo e, addirittura, installato all’interno di una struttura della Curia, dove le condizioni di vita degli internati sarebbero state alleviate dallo zio, con il concorso della popolazione locale. Il Servo di Dio poté operare fino all’8 settembre 1943, quando i Tedeschi presero possesso di Fiume, le loro forze di polizia avocarono le funzioni della questura, relegando al ruolo di mera esecuzione di ordini la polizia italiana, alla quale furono sequestrati armi, munizioni e automezzi. Gli altri funzionari della polizia di Fiume si fecero allora trasferire presso sedi dislocate nella neonata Repubblica Sociale Italiana, ma il Servo di Dio, pur avendo la possibilità di rifugiarsi in Svizzera, preferì rimanere per continuare la sua missione. Essendo il più alto in grado, gli vennero affidate le funzioni di vicequestore.

Avendo capito di essere sospettato dalle autorità militari tedesche, distrusse gli elenchi degli ebrei in suo possesso in modo da renderne impossibile l’individuazione e la cattura. Per ordine del tenente colonnello della Gestapo Herbert Kappler, nella notte fra il 12 e il 13 settembre 1944, fu arrestato con l’accusa di collaborazione e intelligenza con il nemico. Rinchiuso per circa un mese nel carcere Coroneo di Trieste, venne poi tradotto al KZL (Konzentrationslager) di Dachau, dove giunse il 22 ottobre 1944; gli fu tatuata sul braccio la matricola 117826 e assegnato alla baracca 25. Come internato politico italiano, dovette indossare una casacca con un piccolo triangolo rosso avente al centro la lettera I.

Morì il 10 febbraio 1945 per l’epidemia di tifo petecchiale che imperversava nel campo dal dicembre precedente e fu sepolto nella fossa comune sulla collinetta di Leitenberg, situata a circa un chilometro dal campo di concentramento.

Perdurando viva la memoria del suo operato, qualche anno dopo giunsero i riconoscimenti dapprima da parte ebraica, poi anche da parte italiana. Nel 1953, a Ramath Gan, cittadina alle porte di Tel Aviv, alla presenza degli zii paterni Giuseppe Maria e Alfonso, gli fu dedicata una via, la Rechov Hapodim, fiancheggiata da 36 platani, uno per ogni anno della sua vita; il 17 aprile 1955 gli fu intitolata una foresta nei pressi di Gerusalemme e l’Unione delle comunità israelitiche (oggi ebraiche) italiane gli assegnò una medaglia d’oro alla memoria; nel settembre 1990 lo Yad Vashem (Ente nazionale per la memoria dell’olocausto) di Gerusalemme gli riconobbe il titolo di «giusto tra le Nazioni».

Il 19 maggio 1995 il Presidente della Repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro conferì alla memoria di Palatucci una medaglia d’oro al merito civile. Negli anni furono intitolate a Palatucci strade e sedi di commissariato della Polizia di Stato in numerose città d’Italia e il 29 maggio 2009 le Poste italiane emisero un francobollo a suo nome.

Le numerose testimonianze della sua opera a favore degli ebrei provennero da istituzioni ebraiche, da persone da lui salvate, dalla famiglia e da varie istituzioni italiane.

A contestare la ricostruzione della vicenda di Palatucci è stato il Primo Levi Center di New York nel maggio 2013, i cui esiti hanno avuto un certo risalto sulla stampa internazionale, che ha messo in dubbio non solo le dimensioni del suo intervento, ma il suo contributo effettivo alla causa dei profughi ebrei, fino ad avanzare il sospetto che fosse stato invece un fiancheggiatore dei nazisti. Motivo per cui è stata redatta un’approfondita Quaestio selecta su La polemica storiografica su Palatucci, elaborata da uno specialista del settore, il prof. Matteo Luigi Napolitano dell’Università degli Studi del Molise, che stabilisce i termini della polemica e fa chiarezza documentata sui vari punti contestati, dando la certezza storica di poter elaborare questa Positio.



Rilevanza e messaggio del Servo di Dio per la Chiesa e la società di oggi



Dalla biografia emergono con chiarezza alcuni elementi basilari dell’esistenza e dell’importanza del Servo di Dio nella Chiesa e nell’ambiente in cui è vissuto, come pure del suo messaggio per la Chiesa e la società di oggi. La sua intera esistenza, infatti, è stata ispirata da una profonda fede, vissuta in piena conformità alla volontà di Dio e nell’accettazione di ogni prova, finalizzata al servizio dei fratelli perseguitati fino all’estremo sacrificio della sua vita.

Palatucci fu tradito da elementi interni ed esterni alla Questura di Fiume, per ragioni connesse alla gestione dei passaporti e dunque connessi al bisogno di coloro che a un passaporto non avevano alcun diritto: ossia principalmente ad ebrei e ricercati per motivi politici.

Possiamo affermare che l’intera esistenza del Servo di Dio è stata una via crucis, tracciata su quella del Maestro. Sospettato, imprigionato e deportato e quindi condannato senza alcun tipo di processo al campo di concentramento di Dachau. Qui era destinato a perdere ogni parvenza di dignità umana, ormai ridotto ad un numero, esposto a ogni tipo di punizione e di umiliazione e costretto ai lavori forzati.

Le privazioni, le umiliazioni e i maltrattamenti subiti a Dachau furono per lui strumenti di purificazione e di forza.

L’esempio che darebbe Giovanni Palatucci oggi alla Chiesa e alla Società civile e militare è quello di un uomo che avrebbe potuto sfruttare per sé, egoisticamente, il ruolo ricoperto nell’ambito pubblico, ma che invece ha preferito dedicarsi al salvataggio di fratelli perseguitati mettendo volontariamente a repentaglio la sua esistenza. Una traduzione nella pratica di quanto è scritto da Giovanni: «In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. […] Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità (1Gv 3, 16.18).